Artemisia Gentileschi
Roma, 1593 – Napoli 1656
Pittrice
Figlia del noto pittore Orazio Gentileschi (1563-1639), Artemisia fu una delle prime donne pittrici a ottenere riconoscimenti nel mondo androcentrico dell’arte post-rinascimentale. Fino ad allora le pittrici si erano limitate alla ritrattistica e a pose imitative e Artemisia fu la prima donna a dipingere grandi scenari storici e religiosi. La pittura è stato per lei un percorso di passione e al contempo di espiazione: la sua vita è un continuo intreccio con la sua arte, tanto che è difficile distinguerle.
L’apprendistato presso la bottega di suo padre rappresentò per la pittrice Artemisia, l’unico modo per esercitare l’arte, essendole precluse le scuole di formazione. A soli quindici anni però subì un clamoroso episodio di violenza, da parte di un amico di suo padre, Agostino Tassi, che le insegnava i segreti della prospettiva. Il padre denunciò Tassi che dopo la violenza non aveva potuto “rimediare” con un matrimonio riparatore, essendo già sposato. Del processo che ne seguì è rimasta un’esauriente testimonianza documentale, che colpisce per la crudezza del resoconto di Artemisia e per i metodi violenti che dovette subire. Il processo si concluse, infatti, con una lieve condanna del Tassi e la violentata Artemisia depose le accuse dopo essere stata sottoposta a tortura, che le comportarono lo schiacciamento dei pollici, danno gravissimo per una pittrice.
Dopo la conclusione del processo, Orazio combinò per la figlia un matrimonio con Pierantonio Stiattesi, modesto artista fiorentino, che servì a restituirle uno status di sufficiente “onorabilità”. La cerimonia si tenne il 29 novembre 1612. Poco dopo la coppia si trasferì a Firenze, dove ebbe quattro figli, poi Roma e infine a Napoli, dove Artemisia trascorse un lungo periodo della sua vita, dal 1630 al 1654 e dove aprì una bottega molto rinomata che si avvalse della collaborazione di grandi artisti, quali Massimo Stanzione e Bernardo Cavallino. Per lei Napoli fu come una seconda patria e qui morì nel 1656. Fu seppellita nella chiesa di S. Giovanni Battista dei Fiorentini.
Il trauma dello stupro e il processo ebbero un impatto sulla pittura della Gentileschi: le sue rappresentazioni grafiche sono tentativi catartici e simbolici per affrontare il dolore fisico e psichico. Le eroine della sua arte, in particolare Giuditta, sono donne potenti in grado di vendicarsi su maschi violenti. Il suo stile è stato fortemente influenzato dal realismo drammatico e marcato chiaroscuro di Caravaggio, ma conserva una sua forte e originale identità.
Dopo la morte, Artemisia fu dimenticata e i suoi lavori furono spesso attribuiti a suo padre o ad altri artisti. Il rinnovato interesse nei suoi confronti degli ultimi anni le ha restituito il valore che meritava come pittrice di talento, una delle più grandi artiste del mondo, come testimonia il libro di Mary Garrard, Artemisia Gentileschi. The Image of the Female Hero in Italian Baroque Arts, pubblicato nel 1989.
Negli anni ’70 del secolo scorso Artemisia, a partire dalla notorietà assunta dal processo per stupro da lei intentato, diventò un simbolo del femminismo, con numerose associazioni e circoli a lei intitolate. Contribuirono all’affermazione di tale immagine la sua figura di donna impegnata a perseguire la propria indipendenza e la propria affermazione artistica, contro le molteplici difficoltà e pregiudizi incontrati nella sua vita travagliata.
Rosa Bianco
Artemisia Gentileschi, Pubblico dominio, via Wikimedia Commons